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Il Neurofeedback: cos’è, come funziona e a cosa serve

Cos’è il Neurofeedback  Il Neurofeedback è una tecnica di neuromodulazione che mediante la rilevazione dell’attività cerebrale consente il mantenimento di un buon equilibrio di funzionamento del Sistema Nervoso Centrale e l’incremento dello stato generale di benessere. La sua efficacia è supportata da numerosi studi pubblicati su riviste scientifiche internazionali. Grazie al Neurofeedback il paziente può apprendere come normalizzare la propria attività elettrica cerebrale e, così facendo, ottenere una diminuzione significativa della sintomatologia. Come funziona il Neurofeedback Il Neurofeedback si basa sulla registrazione elettroencefalografica (EEG) che rileva e misura le onde cerebrali grazie all’applicazione di alcuni sensori sulla cute. Il segnale viene inviato ad un software, che permette al clinico di valutare l’andamento della seduta in tempo reale. È un semplice monitoraggio, quindi non viene inviata alcuna corrente. Nel momento in cui la persona raggiungerà lo stato psicofisiologico obiettivo del trattamento, questo verrà riconosciuto dal software, il quale fornirà uno stimolo di tipo visivo/uditivo in tempo reale. Il feedback ci fornisce un’indicazione per riconoscere stati mentali al fine di mantenerli. Potrebbe sembrare un gioco divertente, ma in realtà è un training che ha la finalità di normalizzare l’attività cerebrale. Come se fosse una vera e propria palestra per il cervello. A cosa serve il Neurofeedback Il Neurofeedback può essere utilizzato per trattare differenti disturbi e patologie, per migliorare la memoria, la concentrazione e il rilassamento, ma anche per incrementare performance e creatività. È una tecnica che può essere svolta sia sui bambini che sugli adulti. Il Neurofeedback viene considerato anche come un trattamento alternativo alla farmacoterapia. Infatti, può essere integrato ad altre forme di terapia e può essere utilizzato in casi di farmacoresistenza. Cosa si può trattare con il Neurofeedback? Ansia e Stress Dipendenze ed impulsività Disturbi dell’attenzione (ADHD) Disturbi del comportamento alimentare Depressione Disturbi del sonno Disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) Epilessia Disturbo ossessivo/compulsivo Cefalea Performance cognitive, sportive e creatività Prima di iniziare il training, di prassi, viene svolta un’attenta valutazione insieme al clinico di riferimento. Il Neurofeedback viene sempre condotto da un professionista esperto nel metodo. Insieme alla seduta di Neurofeedback proponiamo sempre la possibilità di una consulenza psicologica compresa nel trattamento. Neurosystem è composto da un team altamente specializzato, che ha l’obiettivo di fornire il miglior servizio possibile.
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La Consulenza Psichiatrica

Cos’è la consulenza psichiatrica?Per consulenza psichiatrica si intende una consulenza medica specialistica a fronte di difficoltà, disagi o problemi relativi alla sfera personale e psicologica.Vista l’ampia prevalenza di sintomi rispetto ai segnali della sofferenza del paziente, è necessario favorire il dialogo clinico. È di fondamentale importanza raccogliere, con accuratezza e completezza, il modo in cui il paziente vive e descrive la sua sofferenza, essendo sempre condizionata da fattori specifici e individuali e solo in minima parte da sintomi fisici oggettivi. Ad aumentare la complessità di tale valutazione, si aggiunge anche la possibilità che il paziente possa avere qualche ostacolo a comunicare la sua sofferenza, sia per difficoltà espressive o culturali, sia per mancanza di cognizione della malattia (Biondi et al., 2009).Pertanto, l’obiettivo di qualunque consulto psichiatrico deve essere quello di dare al paziente l’opportunità di raccontare la propria storia in un contesto sicuro e rispettoso al fine di acquisire tutte le informazioni necessarie per la comprensione dell’insorgenza e del corso della sintomatologia presentata (Hales et al., 2015), con lo scopo di costruire una diagnosi possibile e programmare le migliori strategie di intervento terapeutico.Come suggerito da Roberts e Louie (2017) una consulenza completa comprende:La raccolta dei dati anamnesticiLe indagini su eventuali problemi di saluteLa ricerca di documentazione e testimonianze collateraliL’esame dello stato mentaleLa somministrazione di test pertinenti e validatiL’esame obiettivoEventuali esami di laboratorioIn particolare, come indicato nelle “Linee guida dell’APA per la valutazione psichiatrica degli adulti” (Silverman et al., 2015), lo psichiatra specialista dovrà comprendere la motivazione che ha spinto il paziente a sottoporsi alla valutazione; effettuerà un’anamnesi personale, volta alla raccolta di informazioni sanitarie e della storia clinica del paziente, come lo stato di salute generale, la possibilità di aver sofferto di malattie in passato, se abbia assunto o stia assumendo farmaci, gli eventuali ricoveri, e infine se vi siano familiari che abbiano sofferto degli stessi disturbi.Lo scopo finale della consulenza psichiatrica è quello di sviluppare un piano terapeutico farmacologico, laddove ce ne fosse la necessità, che può essere affiancato da un percorso di psicoterapia.A chi è rivolta?Qualsiasi individuo può richiedere una consulenza psichiatrica nel caso in cui sperimenti un disagio psicologico, emotivo, affettivo o relazionale. In altre situazioni questo tipo di consulto può anche essere richiesto da un medico di base, dal proprio psicoterapeuta o da un altro medico che ravvisi, nei sintomi descritti, la necessità di ulteriori indagini cliniche. In circostanze particolari, la consulenza psichiatrica, denominata perizia, può essere richiesta da un organo giudiziario per fini legali (Biondi et al., 2009).Come si svolge una consulenza psichiatrica?Solitamente si articola in uno o due colloqui di valutazione e diagnosi al termine dei quali seguono visite di controllo a cadenza mensile, sebbene la frequenza delle visite e la durata del trattamento psicofarmacologico possano variare in base alle differenti condizioni cliniche e alle esigenze di ciascun individuo.Il primo colloquio ha una durata di circa 50 minuti, in cui si ha la possibilità di parlare delle motivazioni che hanno condotto il soggetto alla richiesta della consulenza e di descrivere accuratamente ciò che si prova e ciò che causa disagio. Verranno effettuate domande finalizzate alla raccolta di informazioni relative all’esordio psicopatologico, a pregressi episodi psicopatologici, a precedenti o attuali trattamenti terapeutici farmacologici o psicoterapeutici.Durante questo consulto, la comunicazione medico-paziente ha un elevato potenziale terapeutico. Il medico, attraverso il colloquio, deve mostrare una particolare empatia per la sofferenza del paziente, soprattutto riguardo la possibilità di comunicargli la sua valutazione tecnica e le strategie terapeutiche che intende attuare (Biondi et al., 2009).Alla fine della consulenza, che cosa accade?Al termine della valutazione potrà essere formulata una diagnosi, che data la natura variabile dei sintomi dovrà essere temporanea e perfezionata nel tempo. Questa consentirà di guidare lo specialista nella scelta del trattamento da seguire. Difatti, non bisogna assolutamente considerare la diagnosi come un’etichetta che descrive la persona, in quanto si tratta semplicemente di un metodo per dare un nome alla sofferenza di un individuo (Nussbaum, 2014).Inizialmente gli interventi proposti saranno orientati a contenere, nel più breve tempo possibile, i sintomi che hanno indotto il paziente ad effettuare una consulenza e che possono causare maggiori difficoltà nella gestione delle attività quotidiane. Tali interventi potranno essere farmacologici o psicoterapeutici o comprendere entrambi, e saranno modulati nel tempo in relazione all’evoluzione del quadro clinico. A questo punto il paziente potrà sottoporre le proprie domande utili a chiarire eventuali dubbi e decidere se seguire o meno la terapia proposta.I diversi orientamenti della classificazione diagnostica: l’importanza di orientarsi verso un approccio dimensionaleAttualmente, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, quinta edizione (DSM-5) è uno dei sistemi nosografici più utilizzati da psichiatri, psicologi e medici di tutto il mondo per la diagnosi dei disturbi mentali o psicopatologici, sia nella pratica clinica che nella ricerca (Roberts & Louie, 2017).Al fine di classificare tali disturbi, le precedenti edizioni del DSM-5, come il DSM-IV-TR (American Psychiatric Association, 2000), ricorrevano a un approccio strettamente categoriale, suddividendo le malattie mentali in categorie diagnostiche e codificandole in base a criteri di presenza o assenza di determinate manifestazioni sintomatiche.L’approccio diagnostico categoriale si contrappone a quello dimensionale, che prevede la distribuzione della malattia mentale lungo un continuum che va dalla patologia alla normalità (Luciano et al., 2016).I distinti orientamenti diagnostici hanno generato infiniti dibattiti su quale possa essere l’approccio migliore da adottare. A tal proposito, il DSM-5 ha tentato di abbandonare l’approccio categoriale a favore di quello dimensionale, segnando un punto di svolta rispetto alle precedenti edizioni. La principale differenza risiede nel fatto che le classi diagnostiche comprendenti disturbi con caratteristiche sovrapposte o simili sono state collocate lungo un continuum (Roberts & Louie, 2017). Tuttavia, il DSM-5 si è limitato a introdurre solamente alcuni aspetti “dimensionali” nella valutazione della gravità dei disturbi psichiatrici, che è rimasta essenzialmente categoriale.Il sistema categoriale del DSM-5, offre diversi vantaggi tra cui un quadro di riferimento per i clinici, garantendo un linguaggio comune e delle linee guida per i ricercatori (Roberts & Louie, 2017). Al contrario, le evidenze scientifiche e cliniche hanno rilevato che un sistema di classificazione basato interamente su rigide categorie diagnostiche non può riflettere la complessità dei quadri clinici dei pazienti con disturbi mentali. Difatti, molto spesso, si può presentare una sintomatologia articolata, in cui possono essere presenti sintomi appartenenti a diversi domini psicopatologici. Pertanto, l’approccio categoriale rischia di ridurre la complessità della pratica clinica reale, attraverso una ridefinizione delle categorie diagnostiche stesse (Luciano et al., 2016).Viceversa, gli approcci dimensionali consentono di caratterizzare in maniera più sfumata e graduale i sintomi. I sintomi non corrispondono necessariamente ad una specifica diagnosi, in quanto differenti diagnosi potrebbero mostrare il manifestarsi di quello stesso sintomo (Roberts & Louie, 2017). Un approccio di tipo dimensionale, dunque, facilita la classificazione di casi al confine tra differenti categorie, di casi difficili e della comorbilità, riducendo inoltre il rischio di stigmatizzazione connesso all’uso di etichette diagnostiche.Le future ricerche dovranno porre fine a tale dibattito orientandosi verso un approccio integrato o dimensionale in modo tale da poter cogliere al meglio le sfumature della sofferenza del paziente, tenendo conto dei repentini cambiamenti che distinguono le differenti entità cliniche.Se desideri prenotare una consulenza psichiatrica puoi contattarci compilando il form al termine della pagina.BibliografiaAmerican Psychiatric Association. (2000). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 4th Edition, Text Revision (DSM-IV-TR) (4th ed.). American Psychiatric Association.Biondi M., Carpinello B., Muscettola G., Placidi G., Rossi A. & Scarone S. (2009). Manuale di Psichiatria. Elsevier.Hales, R. E., Roberts, W. L., & Yudofsky, S. C. (2015). Manuale di psichiatria: American Psychiatric Publishing (Italian Edition). Edra.Luciano, M., Sampogna, G. Del Vecchio, V., De Rosa, C., Albert, U., Carrà, G., Dell’Osso, B., Di Lorenzo, G., Ferrari, Martinotti, S. G, Nanni, M.G, Pinna, F., Pompili, M., Volpe, U., Catapano, F., Fiorillo, A. (2016). Critical evaluation of current diagnostic classification systems in psychiatry: The case of DSM-5. Rivista di psichiatria.Nussbaum A. M. (2014). L’esame diagnostico con il DSM-5. Cortina Raffaello.Roberts W. L & Louie A. K. DSM-5. Istruzioni per l’uso. (2017). Cortina Raffaello.Silverman, J. J., Galanter, M., Jackson-Triche, M., Jacobs, D. G., Lomax, J. W., Riba, M. B., D. Tong L., Watkins K.E., Fochtmann L. J, Rhoads R. S & Yager, J. (2015). The American Psychiatric Association Practice Guidelines for the Psychiatric Evaluation of Adults. American Journal of Psychiatry, 172(8), 798-802.
della Dott.ssa Anna De Blasi Ottobre 15, 2021, 2022
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Consulenza Neuropsichiatrica Infantile

Neuropsichiatria InfantileLa neuropsichiatria infantile è una branca specialistica della medicina, che si occupa dello studio dello sviluppo neuropsichico e dei disturbi neurologici, psichiatrici e neuropsicologici dell’età evolutiva. Come tale si occupa della diagnosi, cura e riabilitazione di patologie neurologiche nella fascia di età 0 e 18 anni (Terribili, 2012). È dunque una disciplina “mista” che include la pediatria, la neurologia e la psichiatria tutte da una prospettiva evolutiva. Attualmente in Italia tali competenze varie e complesse sono circoscritte ad un unico specialista: il neuropsichiatra infantile (Biancichi, 2012).Il Neuropsichiatra Infantile (NPI)La figura del neuropsichiatra infantile (NPI) è specializzata nella valutazione, diagnosi, e nei trattamenti terapeutici dei pazienti con specifici disturbi del neurosviluppo e con difficoltà scolastiche, comportamentali e relazionali nell’età evolutiva.  Tali condizioni compromettono lo sviluppo funzionale del paziente, sia dal punto di vista comunicativo e linguistico, sia nelle relazioni interpersonali, sia nel comportamento.Il neuropsichiatra infantile generalmente fa un lavoro di equipe e collabora tra gli altri anche con i pediatri. Il pediatra a sua volta, si occupa della crescita generale del bambino, del suo corretto sviluppo e delle malattie (Terribili, 2012).I neuropsichiatri infantili trattano una serie di problematiche neurologiche e psichiatriche come:Disabilità intellettiva o ritardo dello sviluppo psicologicoRitardo del linguaggioDisturbi dello spettro dell’autismoDisturbi del comportamento alimentareDisturbi d’ansia e depressiviDisturbi del comportamento e del funzionamento socialeDisturbi di deficit di attenzione, iperattivitàDisturbi specifici di apprendimentoDisturbi dello spettro psicoticoLa diagnosi in NPI ha delle caratteristiche peculiari, che in parte la differenziano dalla diagnosi classica che si fa in medicina. Infatti per fare diagnosi di una patologia in neuropsichiatria (infantile e non) ci si basa sulla soddisfazione di alcuni criteri che sono riconducibili, in un continuum, al concetto di normalità: un temperamento, uno stato emotivo o un comportamento sono “normali” quando sono riscontrabili comunemente in una specifica fascia di età e nel contesto sociale e culturale di riferimento. In questo modo, un soggetto si connota come “normale” in base al suo funzionamento e adattamento ambientale (Biancichi, 2012). Eventuali fattori neurologici, affettivi, temperamentali innati o acquisiti potrebbero intervenire rendendo l’individuo non in grado di adattarsi alle richieste ambientali tipiche (famigliari, scolastiche e sociali) per la sua età cronologica e per il contesto in cui è inserito (Biancichi, 2012).   Il NPI si focalizza sullo studio della psicopatologia dello sviluppo e dei disturbi in un contesto evolutivo: essa si basa inoltre sulla conoscenza delle funzioni psichiche dalla loro genesi e la loro evoluzione nel tempo. Lo sviluppo psichico avviene per tappe evolutive che si distinguono in:1. prima infanzia: dalla nascita ai 24 mesi2. età prescolare: dai 2 anni ai 6 anni3. età scolare: dai 6 anni agli 11 anni4. adolescenza: dagli 11 ai 18 anniLo sviluppo consiste nella progressione del funzionamento dell’individuo, che avviene per tappe, le quali vengono influenzate da quanto accade nella fase precedente, in modo che ogni evento, normale o patologico, interferisce nello sviluppo evolutivo con implicazioni a lungo termine. Nell’analisi dello sviluppo psichico si prendono in considerazione le competenze neurologiche, neuropsicologiche (sviluppo delle competenze motorie, linguistiche ed intellettive) e anche il livello emotivo-affettivo.Consulenza Psichiatrica InfantileLa consulenza in psichiatria infantile si focalizza sulla comprensione globale del problema, sulla valutazione dello sviluppo del paziente e sull’osservazione del suo assetto neuropsicologico e affettivo, con il fine di delineare un profilo di sviluppo. L’eziopatogenesi consiste in un’interazione tra fattori individuali, famigliari e ambientali.Il ruolo del neuropsichiatra infantile coinvolge componenti sia di gestione psichiatrica primaria sia di collaborazione in campo pediatrico.Quando rivolgersi ad un Neuropsichiatra Infantile?Tendenzialmente, la famiglia dovrebbe rivolgersi al neuropsichiatra infantile quando, nel bambino o nell’adolescente, si evidenziano difficoltà nella sfera neurologica, psichiatrica o neuropsicologica. A livello diagnostico, bisogna valutare la sintomatologia manifestata considerando sia la persistenza e la pervasività del sintomo ma anche la fascia di età e il sesso del bambino.In che cosa consiste una Consulenza Neuropsichiatrica Infantile?Il neuropsichiatra infantile struttura la consulenza in diverse sedute conoscitive, al fine di poter raccogliere tutte le informazioni necessari, per stilare un piano di intervento sul paziente. La visita neuropsichiatrica prevede:- colloquio di anamnesi con i genitori- colloquio clinico: generalmente nei bambini in età di latenza o per gli adolescenti ed osservazione di gioco per il bambino (individuale o con i genitori)- osservazione del comportamento e altri elementi significativi durante la visita- esame neurologicoQuesti diversi livelli possono essere anche effettuati in un ordine diverso, in parte anche solo nella prima visita, a seconda dell’età del bambino/adolescente, del livello di “collaborazione” e della complessità del caso. Tuttavia sono tutti necessari per avere un quadro il più possibile completo e poter procedere nella formulazione di un’ipotesi diagnostica ed una eventuale richiesta di approfondimenti che potranno poi portare a confermare l’ipotesi e formulare una diagnosi vera e propria o al contrario a riformulare/modificare l’orientamento diagnostico. Infatti nell’età evolutiva, in particolare per quanto riguarda i bambini molto piccoli, la diagnosi spesso è un percorso che può svolgersi in un tempo più lungo e necessitare non solo degli approfondimenti del caso, ma anche della naturale evoluzione dello sviluppo del bambino è della evoluzione naturale della condizione patologica presente.Il primo passaggio prevede il colloquio di raccolta anamnestica con i genitori e un colloquio clinico con il bambino stesso. In seguito si procede con l’assessment alla conoscenza delle caratteristiche del bambino (in termini temperamentali e organiche), del contesto famigliare in vive il paziente e valutazione delle caratteristiche strumentali e funzionali degli apprendimenti (Lambruschi, 2014).È cruciale che l’intervento contempli i diversi aspetti di funzionamento funzionale e cognitivo, altrimenti si rischia di non dare vantaggio. L’intervento deve tenere in considerazione la flessibilità del contesto (Lambruschi, 2014): bisogna tenere conto dell’analisi della domanda per cui viene inviato del bambino o adolescente, ma è doveroso saper allargare lo sguardo e dare una risposta ad ampio raggio e completa.Se desideri prenotare una consulenza neuropsichiatrica puoi contattarci compilando il form al termine della pagina.BibliografiaIvancich, V. (2012). L’ambulatorio in psichiatria dell’età evolutiva: Screening, orientamento diagnostico, consultazione breve. Springer Science & Business Media.Lambruschi, F. (2014). Psicoterapia cognitiva dell’età evolutiva: procedure di assessment e strategie psicoterapeutiche. Bollati Boringhieri.Lishman, W. A. (1992). What is neuropsychiatry? Journal of neurology, neurosurgery, and psychiatry, 55(11), 983.Terribili M. (2012). Elementi di Neuropsichiatria Infantile. Scuola IaD, Roma.
della Dott.ssa Virginia Fontana Novembre 07, 2022
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Neurofeedback e ADHD

L’ADHD viene solitamente associato a delle alterazioni nei pattern elettroencefalografici. Il Neurofeedback, basandosi sull’EEG, può aiutare a normalizzare l’attività cerebrale attraverso training specifici finalizzati a migliorare aspetti legati all’attenzione al rilassamento.Introduzione al Neurofeedback nel trattamento dei Disturbi dell'Attenzione - YouTubeLivello di efficaciaGrazie a risultati molto promettenti presenti in letteratura scientifica, nel 2012 l’American Academy of Pediatrics ha definito il Neurofeedback come trattamento di 1° livello e come “Miglior Supporto” per il Disturbo da Deficit d’Attenzione e Iperattività, inserendolo tra le terapie d’elezione per l’ADHD.
Migliora l'attenzione e riduci l'iperattività.Il training specifico per il cervello, divertente come un videogame!Agisci sulla tua attività cerebrale e riduci la sintomatologia. Novembre 06, 2022
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Occhi e Cervello: quale relazione tra Malattie Retiniche e Salute Mentale?

Cos’è la Retina?La retina viene descritta come un neuroepitelio, uno dei tessuti più raffinati del corpo umano, che ricopre quasi totalmente il bulbo oculare ed è caratterizzato dalla presenza di neuroni e cellule specializzate nella fotorecezione.La struttura complessiva della retina è molto sofisticata, poiché presenta diverse tipologie di cellule e numerosi strati, ognuno con delle funzioni ben precise. Di particolare importanza sono dei gruppi cellulari detti coni, coinvolti nella visione a colori, e i bastoncelli, implicati nella visione monocromatica in condizioni di scarsa luminosità. Il numero di questi elementi nella retina ammonta a circa 5-7 milioni per i coni e 100-130 milioni per i bastoncelli.Il ruolo della retina è quello di captare gli stimoli visivi e trasformarli in segnali nervosi che verranno inviati alle strutture cerebrali deputate all’interpretazione visiva tramite l’ausilio del nervo ottico.Le malattie che possono colpire la retina sono di diverso tipo, come ad esempio la retinopatia del prematuro, la retinite pigmentosa, il distacco di retina, retinopatie ipertensive o diabetiche e le più comuni miodesopsie (note come “mosche volanti”). Chi soffre o ha sofferto di queste patologie può presentare sintomi psicologici in quanto alcune di esse richiedono interventi chirurgici invasivi e spesso improvvisi, mentre altre, di natura cronica, possono impattare significativamente sulla qualità della vita.Gli studi in letteratura che si concentrano sulla relazione tra salute mentale e patologie della retina sono ancora pochi. In questo articolo ci concentreremo sulle conseguenze psicologiche confrontando due diversi disturbi della retina: il distacco di retina, un evento ad insorgenza acuta, e la retinopatia diabetica, un’alterazione che può affliggere i pazienti con diabete di tipo I e II e che può cronicizzare.Distacco di RetinaIl distacco di retina è una delle maggiori emergenze in campo oftalmologico. Può essere di vari tipi, ma il più frequente è quello di tipo regmatogeno. Quest’ultimo consiste nel sollevamento di uno strato della retina rispetto alla sua origine che trascina con sé i vasi sanguigni ricchi di ossigeno e fa si che il liquido proveniente da una cavità detta cavità vitreale penetri nello spazio sottoretinico (Steel, 2014). Viene ritenuta un’emergenza in quanto dopo solo 48 ore dal distacco inizia la morte cellulare fino al progressivo coinvolgimento della macula e quindi alla perdita della vista, pertanto l’intervento deve essere il più tempestivo possibile dalla comparsa dei sintomi.Le cause che conducono a questo evento possono essere la familiarità, le miopie elevate, esiti di altre patologie, precedenti interventi di cataratta o conseguenza di traumi (Steel, 2014).Alcuni dei sintomi tipici sono flash luminosi, la presenza massiccia delle miodesopsie e la comparsa di quella che viene descritta come una tenda scura in qualche zona del campo visivo (Feltgen & Walter, 2014).Le tipologie di intervento che si possono attuare sono di natura chirurgica e includono il cerchiaggio retinico, in cui viene posta una banda di silicone intorno al bulbo oculare, oppure la vitrectomia, una procedura più invasiva che consiste nell’asportazione del corpo vitreo e nella sostituzione dello stesso con altre componenti (Feltgen & Walter, 2014).Retinopatia DiabeticaLa Retinopatia Diabetica è una complicazione del diabete, a carico della retina, che si manifesta con l’alterazione del sistema microvascolare causata dall’iperglicemia e che conduce ad un accumulo di liquidi e alla formazione di nuovi vasi sanguigni nella retina (Cheung, Mitchell & Wong, 2010). Si può distinguere in due tipologie, proliferante e non proliferante: la prima è più grave in quanto si ha una maggiore proliferazione dei vasi che può condurre ad ischemie nella retina o al distacco; nella seconda i vasi si danneggiano dando origine a piccoli aneurismi e provocando un accumulo di liquidi in grado di condurre ad una riduzione della vista (Moreno, Lozanos & Salinas, 2013).Alcuni dei sintomi sono la visione offuscata, la comparsa di zone scure, difficoltà nella percezione dei colori, perdita dell’acuità visiva e, anche in questo caso, la presenza di miodesopsie (Heng et al., 2013).Tra i possibili trattamenti, oltre alla gestione del diabete sottostante e in considerazione delle specificità del quadro clinico presentato, si può procedere con fotocoagulazione laser, iniezioni intravitreali o, anche in questo caso, con la vitrectomia.Sintomi psicologici associati alle malattie retinicheCome accennato precedentemente, gli studi che hanno messo in relazione la salute mentale con i disturbi della retina sono ancora pochi. Generalmente, questi studi riportano alterazioni psicologiche come conseguenza dell’aver subito un distacco di retina e del vivere con la retinopatia diabetica. Solo alcuni di essi, al momento, evidenziano la correlazione tra presenza di disturbi mentali prima della patologia retinica e l’esordio di essa, in particolare nel caso della retinopatia diabetica.Per quanto riguarda il distacco di retina regmatogeno sono stati evidenziati marcati sintomi di stress nei pazienti che hanno subito un intervento, in particolare in relazione all’acuità visiva residua (Mozaffarieh et al., 2007). Inoltre, pazienti che hanno vissuto un distacco di retina presentano una maggiore incidenza di depressione rispetto a chi non lo ha avuto (Vidal et al., 2021). Per quanto riguarda i sintomi ansiosi, la maggior parte delle persone (71%) presenta sintomi lievi o moderati mentre il 14% manifesta gravi sintomi ansiosi, in particolare nel periodo immediatamente successivo all’intervento (Abboud, Mansour & Riad, 2008). Tutti questi studi suggeriscono di porre una particolare attenzione anche alla sfera psicologica durante la presa in carico e la gestione di un paziente con distacco di retina.Nel contesto della retinopatia diabetica, già numerose evidenze hanno messo in relazione l’aumentata incidenza di diabete in pazienti con malattie mentali. Inoltre, persone che manifestano disturbi psichiatrici tendono ad avere una peggiore aderenza al trattamento del diabete e dunque maggiore probabilità di sviluppare o aggravare la retinopatia diabetica (Bradley & Delaffon, 2020). Secondo altri studi, i pazienti con retinopatia diabetica presentano depressione o sintomi depressivi associati alla gravità della malattia e con perdita progressiva della capacità visiva (Khoo et al., 2019). In questo caso, gli studi suggeriscono di attuare interventi preventivi per la salute psicologica di questi pazienti anche attraverso il rallentamento della progressione della malattia e un’adeguata gestione del disagio psicologico attraverso l’utilizzo di screening e prese in carico da parte di équipe multidisciplinari (Khoo et al., 2019).La ricerca deve compiere ancora numerosi passi avanti per indagare più approfonditamente questo tema, ma ad oggi sappiamo che le patologie retiniche possono influenzare negativamente la qualità di vita dei pazienti e affliggerne il funzionamento psicologico, pertanto la salute mentale deve essere un elemento da tenere in considerazione nella gestione dei pazienti che hanno subito un distacco di retina e che convivono con la retinopatia diabetica e con altre patologie retiniche.
della  Dott.ssa Ambra Salvati 14 marzo 2022
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Il Distress Cronico

Cos’è il distress cronico e come si combatte?La risposta vincente tiene conto del sistema integrato corpo-menteNegli ultimi anni la parola stress è entrata prepotentemente a far parte del nostro vocabolario. L’accelerazione costante dei ritmi quotidiani, la difficoltà nel gestire le priorità e le scadenze, oltre che quella di tener fede agli impegni di tutti i giorni porta tutti noi ad avvertire alle volte una sensazione di oppressione, stanchezza e apprensione. L’insieme di queste sensazioni viene spesso identificato sotto il concetto di stress.Come è stato già spiegato in articoli precedenti, il primo a usare questo termine in relazione agli esseri umani fu il medico Hans Selye, nel 1936, in una lettera pubblicata su Nature. Il Professor Selye, dopo innumerevoli osservazioni, concluse che gli esseri viventi, in condizioni normali, sopportano le vicissitudini della vita in maniera elastica e funzionale, alternando periodi di maggior tensione e dispendio a periodi di recupero funzionale delle energie.“Lo stress è la risposta strategica dell’organismo nell’adattarsi a qualunque esigenza, sia fisiologica che psicologica, cui venga a esso sottoposto. È la risposta aspecifica dell’organismo a ogni richiesta effettuata su di esso”.A questo punto diventa evidente come lo stress, di per sé, non rappresenta per l’organismo un ostacolo insormontabile al proprio funzionamento, anzi, è di fatto il compito di ogni organismo vivente quello di adattarsi in continuazione all’ambiente.Eustress e distressIn ragione di ciò allora sarebbe più corretto parlare di “eustress” quando si fa riferimento alla forza vitale che tutti i giorni ci permette di essere responsivi nei confronti delle stimolazioni esterne, di “distress” quando vogliamo riferirci invece all’insieme di sgradevoli sensazioni collegate alla stanchezza e all’esaurimento psicofisico apparentemente immotivato.A molti di noi sarà capitato di passare gradualmente da una sensazione di generale benessere a una di sovraccarico e preoccupazione, molto spesso a causa dell’accumularsi di compiti da svolgere. Il graduale cambiamento dell’assetto psicofisico cui assistiamo altro non è che una dimostrazione di come funziona praticamente lo stress.La General Adaptation Syndrome (G.A.S.)Per identificare questo insieme di cambiamenti, Selye fa riferimento alla “General Adaptation Syndrome” (G.A.S.) ovvero alla “sindrome generale di adattamento”, quella che noi chiamiamo comunemente “risposta di stress”. La G.A.S può essere considerata come un insieme di reazioni psicologiche e neuroendocrine che vengono scatenate da uno stimolo esterno disturbante o da uno stressor cognitivo (preoccupazioni, paure, rimuginazioni).Occorre a questo punto fare una precisazione: il nostro organismo per milioni di anni si è adattato molto bene a rispondere a una serie di minacce fisiche, che comportavano un pericolo per la vita. La risposta migliore a minacce di questo tipo è l’attacco o la fuga. Questo tipo di risposta tuttavia non è esattamente funzionale se la minaccia percepita non è reale, bensì è rappresentata da una nostra preoccupazione eccessiva o dalla paura di non essere all’altezza.È chiaro che ci sono eventi oggettivamente catastrofici che ci mettono alla prova e ci lasciano senza risorse psicofisiche, è anche vero però che non è funzionale sprecarne così tante per far fronte a impegni ordinari.I ritmi della vita contemporanea ci impongono di fatto di permanere in uno stato di distress cronico. Questo comporta ad esempio l’incremento di onde cerebrali ad alta frequenza, la costante contrazione di particolari distretti muscolari e la iperproduzione di ormoni dello stress come i glucocorticoidi, anche in momenti in cui sarebbe opportuno recuperare le energie e raggiungere uno stato di rilassamento.Gli effetti del distress cronicoGli effetti a lungo termine dello stress improduttivo e senza risoluzione, ovvero del distress cronico, sono definibili in cinque principali tipi di sintomi, i quali seguono un percorso stabilito:1. Stanchezza cronica (fisica o mentale). La persona ha difficoltà a mantenere la concentrazione, a portare a termine compiti che prima riusciva ad adempiere. Fa ricorso a sostanze eccitanti come la caffeina al fine di controbilanciare l’effetto scarsamente ristorativo del sonno, spesso disturbato e intermittente. L’organismo innesca una reazione di allarme, aumenta la reattività del sistema nervoso autonomo, aumenta la produzione di citochine infiammatorie e di ormoni dello stress.2. Problemi interpersonali e autoisolamento. Con il progredire di questo stato di distress siinnescano problemi nei rapporti con gli altri: si diventa sospettosi e ostili, emotivamente labili e irritabili. Diminuisce la capacità di controllare gli impulsi e di mettersi nei panni degli altri. Peggiorano le relazioni interpersonali e si perdono le possibilità di gratificazione e conforto legate ai buoni rapporti col prossimo. Si ha la sensazione di non avere le risorse per affrontare il rapporto con l’altro. La tendenza a rinchiudersi in sé stessi e all’isolamento dalla vita sociale cresce rapidamente, ogni minima difficoltà diventa un problema insolubile.3. Turbe emotive. Nella terza fase di distress l’emozione dominante diviene l’irritabilità già presente nella fase precedente, questa volta maggiormente rivolta verso sé stessi. Compaiono insicurezza, confusione, difficoltà nel prendere decisioni. I rapporti sociali continuano a deteriorarsi e l’incapacità di controllare le proprie emozioni diventa un ostacolo ai processi di socializzazione.4. Dolori cronici. Nella quarta fase spesso compaiono sintomi fisici tramite i quali l’organismo lancia una serie di segnali di allarme. Il primo sintomo fisico solitamente è la rigidità muscolare (aumento del tono muscolare). Non di rado di notte si tende a serrare le mascelle e talvolta a digrignare i denti nel sonno (bruxismo), aumentano le cefalee, i disturbi alla vista, i dolori articolari, lo squilibrio del senso della fame e della sazietà.5. Patologie da stress. In questa ultima fase del distress l’organismo esce dal lungo periodo di resistenza per entrare in una fase di esaurimento delle risorse psicofisiche. I danni invisibili accumulati per lungo tempo nell’organismo si manifestano con malattie specifiche, in gran parte favorite dal progressivo indebolimento del sistema immunitario e dall’aumento dello stato generale di infiammazione sistemica, compaiono raffreddori e influenze ricorrenti, ulcere, disturbi gastrointestinali, coliti, ipertensione essenziale, scompensi cardiovascolari, manifestazioni infiammatorie della pelle.Come affrontare il distressÈ opportuno correre ai ripari nel momento in cui si presentano alla nostra attenzione i segni e i sintomi di distress cronico. Esistono ad oggi numerose tecniche evidence-based mirate a risolvere condizioni di questo genere. Questi disturbi necessitano infatti di interventi integrati da un punto di vista psicofisiologico.La presa in carico della persona deve essere quindi globale: dall’assessment per identificare l’effettivo stato di salute, passando per la psicoeducazione per imparare a gestire in maniera produttiva gli impegni quotidiani e l’autoregolazione emotiva, fino a interventi bottom-up mirati a raggiungere uno stato di reale rilassamento e recupero funzionale, come le tecniche di rilassamento e il neurofeedback.In questo modo si può agire simultaneamente su più fronti, eliminando tutti i fattori responsabili dell’autoalimentante circolo vizioso su cui si fonda il distress cronico, scongiurando le ricadute. Dott.ssa Tonia SamelaPsicologa ClinicaPhD Student UERRicercatrice IDI-IRCCStonia.samela@gmail.com
della Dott.sa Tonia Samela
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Music is the Best Friend of the Brain: Le Neuroscienze Cognitive della Musica

Musica ed emozioniLe emozioni sono esperienze soggettive complesse a più componenti che inducono una prontezza ad agire. Svolgono una funzione adattativa perché costituiscono una risposta immediata ad una sollecitazione ambientale. Sono costituite da più componenti: componente cognitiva, attivazione fisiologica, componente espressiva e l’esperienza soggettiva.Il ruolo della musica nell’attivazione emotivaNel considerare la relazione fra musica ed emozioni è necessario adottare un approccio che tenga conto dell’evoluzione temporale della musica, cosa che comporta modifiche continue nello stato emotivo di chi ascolta.Alcune ricerche hanno mostrato come l’identificazione della connotazione emozionale di un brano avviene in tempi brevissimi, inferiori al secondo. Questo non implica che il brano ci trasmetta tutte le emozioni in meno di un secondo, ma che la sua connotazione emozionale è spesso presente fin dal principio del brano.Sono diversi gli aspetti della musica che ci portano a sentire un’emozione, uno di questi è la struttura del brano musicale. Esiste infatti una relazione tra l’intensità e la qualità delle emozioni provate e la struttura del brano musicale.Fra i diversi fattori strutturali che giocano un ruolo nell’espressione dell’emozione in musica, il tempo sembra avere un ruolo privilegiato. Non a caso alcune delle indicazioni usate dai compositori per segnalare a che tempo una determinata opera debba essere eseguita hanno una connotazione emozionale (vivace, allegro, ecc.).Il tempo veloce fa variare notevolmente la dimensione dell’arousal, definibile anche come una sorta di attivazione generalizzata: un tempo veloce favorisce un aumento dello stato di eccitabilità.Le risposte fisiologiche agli stimoli musicaliUna risposta al perché la musica abbia un così alto impatto emotivo potrebbe arrivare dagli studi sugli effetti fisiologici dell’ascolto della musica. Diversi studi hanno mostrato come la frequenza cardiaca possa essere modificata dall’ascolto musicale. Musiche rapide tendono ad aumentare la frequenza cardiaca, musiche tristi a ridurla.Infine, studi recenti, hanno messo in luce un effetto importante della musica nella riduzione della secrezione del cortisolo, ormone legato allo stress.Questi studi quindi ci mostrano quanto la musica sia un canale importante nel modificare il funzionamento del SNA. Le modificazioni del SNA influiscono in modo importante sul nostro modo di sentire le emozioni. Il cervello elabora le informazioni periferiche del SNA e interpreta i diversi cambiamenti alimentando in tal modo il circuito emozionale.Quindi se la musica è un canale preferenziale nella modifica del funzionamento del SNA, questo la mette in una condizione di privilegio per quanto riguarda l’induzione di emozioni.La musica ci rende “più’ intelligenti”?Quando ci si interessa ai possibili effetti delle lezioni di musica, in ambiti non musicali, troviamo un cospicuo numero di ricerche che mostrano un vantaggio generalizzato.Alcuni studi si sono interessati alla correlazione tra abilità musicale e altri tipi di abilità non musicali.Uno studio che merita di essere considerato in questo settore è quello di Schellenberg (2004). In questa ricerca una serie di test d’intelligenza sono stati somministrati a 144 bambini di 6 anni, e sono stati successivamente divisi in più gruppi a seconda dell’attività svolta. Le attività consistevano nel seguire per 36 mesi lezioni o di piano, o di canto o di teatro. Vi era inoltre il gruppo di controllo che non ha svolto nessuna attività musicale.Alla fine di questo periodo i test sono stati somministrati nuovamente, ovviamente tutti sono migliorati poiché nel frattempo i bambini sono maturati, ma coloro che hanno seguito corsi di musica (piano e canto) sono migliorati maggiormente rispetto al gruppo che ha seguito corsi di teatro e al gruppo che non ha svolto attività musicali.Le spiegazioni possono essere differenti: una possibilità è che i corsi di musica (canto e piano) sviluppino abilità quali attenzione selettiva, concentrazione e memorizzazione.La musicoterapiaGli studi fin qui descritti possono trovare applicazione nell’ambito della musicoterapia, una nuova disciplina emergente che riscuote sempre più’ successo.La pratica musicale sembra poter modificare, entro certi limiti, le connessioni cerebrali e migliorare anche alcune capacità non musicali.Lo studio della musica permette di sviluppare funzioni quali: memoria, attenzione e coordinazione motoria.Queste sono buone ragioni per pensare che la musica possa essere utilizzata in ambito terapeutico in diversi ambiti, quali: disturbi dell’apprendimento, disturbi attentivi e riabilitazione di alcuni tipi di deficit uditivi centrali. Dott.ssa Ilaria DaniottiPsicologaAmbito neuropsicologico e della riabilitazione cognitivadaniotti.ilaria@gmail.com
della Dott.ssa Ilaria Daniotti
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Plesso Coroideo: il Legame tra il Cervello e le Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali

Cos’è il Plesso Coroideo?Il plesso coroideo è una membrana vascolare che si trova all’interno di ognuno dei quattro ventricoli cerebrali ed è implicato, insieme ad essi, nella formazione del liquido cefalorachidiano (liquor). Inoltre, funziona come sistema di filtrazione che rimuove rifiuti metabolici, neurotrasmettitori e sostanze in eccesso a favore di sostanze nutritive e cellule immunitarie: per questo motivo il suo ruolo è estremamente importante nel mantenere l’omeostasi cellulare che serve al cervello per funzionare in maniera ottimale (Mortazavi et al., 2014).Recentemente, il suo comportamento è stato descritto come quello di un “cancello”, in grado di aprirsi e chiudersi per impedire il propagarsi di un’infiammazione fino al cervello. Quest’ultima può essere descritta come una generica condizione di risposta fisiologica nei confronti di un organismo potenzialmente patogeno che innesca l’attivazione dell’immunità e di tutti i complessi meccanismi biomolecolari ad essa associati (Arulselvan et al., 2016). In questo caso, l’infiammazione è quella che deriva dall’intestino (Carloni et al., 2021).Cosa sono le Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali?Le più comuni malattie infiammatorie croniche intestinali (note con l’acronimo IBD da “Inflammatory Bowel Disease”) comprendono la Malattia di Chron e la Rettocolite Ulcerosa. Esistono diverse ipotesi formulate al fine di descriverne le cause ma, ad oggi, sono ancora considerate malattie idiopatiche (senza una causa nota) o risultanti dall’interazione tra fattori genetici e ambientali (Amoroso et al., 2020). La spiegazione più condivisa sembra essere quella di una reazione immunitaria alterata dell’intestino nei confronti degli antigeni che vi entrano in contatto (Chang, 2020). L’intestino, infatti, è popolato dal cosiddetto microbiota (o flora batterica intestinale) che comprende anche microrganismi di tipo mutualistico e commensale verso cui innesca reazioni di tolleranza piuttosto che di attacco, mostrando una raffinata funzione del sistema immunitario: ogni minima alterazione di questo delicato equilibrio può condurre a conseguenze di natura patologica nei confronti dell’individuo (Amoroso et al., 2020).In particolare, la Rettocolite Ulcerosa è limitata al colon presentandosi con infiammazione della mucosa superficiale che si estende in maniera contigua e che può condurre a ulcere, megacolon tossico, gravi sanguinamenti e coliti. La Malattia di Chron, invece, può colpire qualsiasi parte del tratto digerente anche in modo non contiguo ed è caratterizzata dall’infiammazione delle parti più profonde della mucosa, che può causare fistole e ascessi (Chang, 2020).E’ importante sottolineare che le persone affette da IBD presentano spesso alterazioni cognitive e comportamentali ed una sintomatologia psicologica, spesso ansiosa e depressiva, associata alla malattia. Gli studi presenti in letteratura sono contrastanti: alcuni affermano che questi effetti siano una risposta psicologica ad una situazione avversa come quella di avere una IBD, altri sostengono che possa essere una risposta fisiologica in cui lo stato infiammatorio dell’IBD interagisce con ciò che media disturbi d’ansia e dell’umore a livello biologico (Bernstein, 2016). Il Legame tra IBD e Sintomi PsicologiciUn recente studio pubblicato su Science e condotto da un team di ricercatori dell’Humanitas di Milano ha fatto luce sul coinvolgimento del plesso coroideo nella relazione tra le IBD e lo sviluppo di ansia e depressione ad esse associate, oltre che a deficit nella memoria a breve termine.Come accennato precedentemente, il plesso coroideo svolge la funzione di un “cancello” che si chiude in risposta ad un’infiammazione intestinale al fine di impedire il propagarsi di quest’ultima al cervello, verso cui giunge mediante vari meccanismi di trasporto attraverso il flusso sanguigno. Nello specifico, la risposta infiammatoria induce la chiusura del cancello dopo l’apertura di una barriera vascolare nell’intestino mediata da un segnale chimico (catenina-beta1) impedendo l’ingresso di alcune molecole. Queste informazioni sono state ottenute dai ricercatori attraverso una metodica nota come Single Cell Sequencing mediante la quale sono state identificate le componenti del sistema vascolare coinvolte in questo meccanismo e che sono associate con la permeabilità dei vasi sanguigni.Ma il prezzo che il nostro organismo paga quando il cancello si chiude per bloccare l’arrivo di sostanze tossiche al cervello provenienti dall’intestino affetto da IBD è quello di compromettere le funzioni cerebrali, avendo come risultato ansia, depressione e deficit della memoria a breve termine. Da ciò si intuisce che le alterazioni psicologiche e cognitive siano in realtà la conseguenza di un vero e proprio processo biochimico a carico dell’asse intestino-cervello e non solo una manifestazione del disagio dovuto alla malattia (Carloni et al., 2021).Questo studio rappresenta un’ulteriore conferma dell’importanza di una corretta attività immunitaria per tutte le funzioni del sistema nervoso, sia dal punto di vista organico che psicologico, in quanto, come la scienza continua a dimostrare, le alterazioni psicologiche sono sempre conseguenza di squilibri elettrochimici o morfo-funzionali. Inoltre, tali evidenze aprono le porte allo sviluppo di nuove terapie farmacologiche per il trattamento delle IBD, alla comprensione di malattie come quelle neurodegenerative e a domande che riguardano i possibili interventi sul plesso coroideo per modificare questi stati alterati.Amoroso, C., Perillo, F., Strati, F., Fantini, M., Caprioli, F. & Facciotti, F. (2020). The role of gut microbiota biomodulators on mucosal immunity and intestinal inflammation. Cells, 9 (5). 1234.Arulselvan, P., Fard, M.T., Tan, W.S., Gothai, S., Fakurazi, S., Norhaizan, M.E. & Kumar, S.S. (2016). Role of antioxidants and natural products in inflammation. Oxidative Medicine and Cellular Longevity, 5276130.Bernstein, C.N. (2016). Psychological stress and depression: risk factors for IBD? Digestive Diseases, 34 (1-2). 58-63.Carloni, S., Bertocchi, A., Mancinelli, S., Bellini, M., Erreni, M., Borreca, A., Braga, D., Giugliano, S., Mozzarelli, A.M., Manganaro, D., Fernandez-Perez, D., Colombo, F., Di Sabatino, A., Pasini, D., Penna, G., Matteoli, M., Lodato, S. & Rescigno, M. (2021). Identification of a choroid plexus vascular barrier closing during intestinal inflammation. Science, 374 (6566). 439-448.Chang, J.T. (2020). Pathophysiology of inflammatory bowel diseases. The New England Journal of Medicine, 383. 2652-2664.Mortazavi, M.M., Griessenauer C.J., Adeeb, N., Deep, A., Bavarsad Shahripour R., Shahripour R.B., Loukas, M., Tubbs, R.I. & Tubbs, R.S. (2014). The choroid plexus: a comprehensive review of its history, anatomy, function, histology, embryology, and surgical considerations. Childs Nervous System, 30 (2). 205-214.Dott.ssa Ambra SalvatiPsicologa esperta in Neuropsicologia.Precedentemente collaboratore di ricerca presso University of Oxford.Neurosystem team
della Dott.ssa Ambra Salvati
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Fame emotiva e Mindfull Eating

L’alimentazione è connessa con la vita emotiva e assume un significato che va oltre l’aspetto semplicemente fisiologico. A volte il cibo può infatti diventare un’illusoria strategia di gestione delle emozioni.In questo periodo, che porta con sé un carico emotivo significativo, si è parlato molto di gestione e regolazione delle emozioni, ma vediamo una delle tipiche strategie “scelte” per far fronte a questi stati emotivi: mangiare.Cos’è la fame emotiva?Mangi di più quando sei stressato?Ti capita di mangiare anche se non hai fame o anche se sei già pieno?Mangi per sentirti meglio (per esempio per calmarti e darti sollievo quando sei triste, arrabbiato, annoiato, ansioso…)?Ti dai delle ricompense con il cibo?Se ti riconosci in queste domande, è probabile che anche tu faccia esperienza di quella che viene chiamata “fame emotiva”. Si chiama così perché il bisogno di mangiare viene dalla mente. In altre parole, non si tratta di una fame fisiologica ma del bisogno di calmare un particolare stato emotivo e provare sollievo.Quando ci coglie la fame emotiva, può essere facile scambiarla per una fame fisica reale. Ecco alcune caratteristiche che ci possono aiutare a distinguerle:– La fame emotiva si presenta improvvisamente con carattere di urgenza, mentre quella fisica è graduale.– La fame emotiva richiede i così detti “comfort foods”, in quanto producono un rilascio di dopamina che fa provare piacere e rinforza positivamente la strategia di gestione emotiva.– La fame emotiva tende a far mangiare in modo caotico e oltre sazietà, dopotutto non è questo il bisogno che è chiamata a soddisfare.– La fame emotiva si presenta come un desiderio che parte direttamente dalla testa, più che dallo stomaco.– Dopo aver dato sfogo alla fame emotiva, accade spesso che la sensazione di piacere sia seguita da altre emozioni spiacevoli e pensieri giudicanti. Ci abbattiamo, ci biasimiamo, non ci piacciamo e la nostra autostima ne risente attivando un circolo vizioso. Occasionalmente, utilizzare il cibo per tirarsi su di morale, come ricompensa o per festeggiare, non è necessariamente una brutta cosa. Il confine viene stabilito dall’intensità del comportamento, dalla frequenza con il quale si presenta e dalla consapevolezza che si ha di questo approccio. Infatti gli esperti suggeriscono che la fame emotiva può essere causata da una scarsa consapevolezza, un’interpretazione errata delle emozioni e sensazioni e da problemi nel gestire suddette emozioni.Mindful eatingMindful Eating è un nuovo modo di rapportarsi al cibo fondato sulla mindfulness. Grazie alla pratica della Mindfulness possiamo sviluppare la piena consapevolezza, ovvero la capacità di prestare attenzione intenzionalmente a quello che accade dentro e intorno a noi nel momento in cui accade, osservandolo e accettandolo così com’è, liberandoci dagli automatismi.Le pratiche mindfulness scelgono un oggetto (sensazione fisica, percezioni sensoriali, azioni…) a cui riportare intenzionalmente l’attenzione ogni volta che la mente inizia a vagabondare sotto la guida del pilota automatico, sviluppando la consapevolezza che pensieri ed emozioni sono transitori, che non possiamo controllare il loro presentarsi ma il nostro modo di rapportarci ad essi e di comportarci di conseguenza.Mangiare mindful, pertanto, significa portare intenzionalmente l’attenzione non solo a cosa, a quando e quanto mangiamo e alle qualità sensoriali degli alimenti, ma anche ai nostri segnali psicofisici, osservando come gli stati d’animo influiscano sulle abitudini alimentari e quindi divenendo liberi di compiere scelte ed esperienze alimentari consapevoli. Il focus nel mindful eating infatti non è il cibo, bensì la nostra relazione con esso. Consigli pratici per iniziare ad avvicinarsi alla mindful eating1. Quando ti assale la fame, aspetta, concediti qualche minuto per riconoscere se si tratta di fame fisica o fame emotiva attraverso l’ascolto del corpo e l’osservazione di emozioni e pensieri presenti in quel momento (possono essere utili pratiche formali di mindfulness).2. Mangia lentamente, prenditi il tempo giusto per portare tutta la consapevolezza su ciò che stai mangiando. Questo allena la mente alla consapevolezza e allo stesso tempo favorisce la dieta: il nostro cervello impiega circa 20 minuti prima di accorgersi della pienezza. Mangiare lentamente, consapevoli, momento per momento di cosa stiamo mangiando e delle nostre sensazioni, aiuta a riconoscere i segnali di sazietà prima che lo stomaco sia esageratamente pieno.3. Durante il pasto niente distrazioni! Porta la tua attenzione completamente su quello che stai facendo e provando in quel momento. Non significa che sia vietato mangiare davanti a un bel film, un programma che ci piace, o controllare delle email per necessità, ma non dovrebbe essere la norma.4. Prova a mangiare con la mano non dominante: rendendo il compito più difficile, il pilota automatico perde potere e diventa più facile concentrarsi. Inoltre sviluppi la mobilità dell’arto che usi meno, perché no?!5. Prenditi il tempo giusto anche per avvicinarti alla mindful eating, non avere fretta di vedere risultati, non per niente si chiama “pratica”: la bontà della pratica la fa l’intenzione e il riconoscimento dei processi mentali automatici che sono normali, e che gentilmente lasciamo andare per riportare l’attenzione su quello che accade nel momento presente.Con l’allenamento sarà sempre più semplice guidare la nostra mente, anche se potranno comunque esserci giornate in cui sarà più impegnativo. Occorre essere pazienti e gentili.Il mio consiglio è di affiancare alle pratiche specifiche per l’alimentazione anche quelle formali di mindfulness sul respiro, l’ascolto del corpo e la gratitudine per allenare la mente alla consapevolezza, la gentilezza e l’apertura. Dott.ssa Francesca SferruzzaPsicologa clinicaSpecializzanda in psicoterapia cognitivo-comportamentaleOperatrice antiviolenzafrancescasferruzza@gmail.com
della Dott.ssa Francesca Sferruzza
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Le Neuroscienze in Azienda: un aiuto per promuovere il Well-Being e ridurre lo Stress lavoro-correlato

Il lavoro occupa gran parte della nostra vita. Ogni mattina ci svegliamo, ci prepariamo e ci rechiamo nello stesso posto, in media per otto ore al giorno e per circa 30-40 anni. Molto spesso, per arrivare a svolgere il lavoro che ci piace abbiamo iniziato a studiare molti anni prima, compiendo sacrifici, rinunciando ad aperitivi con gli amici, alle feste e ai weekend fuori porta, e altrettanto spesso potremmo aver accumulato esperienze negative e diverse porte chiuse. O anche peggio, potremmo trovarci nella situazione in cui stiamo svolgendo un lavoro che non ci piace e non possiamo fare altrimenti.Quando si lavora a pieno ritmo, il tempo per noi stessi, per le nostre famiglie e per i nostri interessi viene ridotto drasticamente: da ciò possiamo intuire quanto sia di fondamentale importanza far sì che il luogo di lavoro sia il più sereno, inclusivo e funzionale possibile, adatto alle esigenze del singolo lavoratore e in modo tale da poter promuovere quanto più possibile quel concetto noto come work-life balance.Lo stress lavoro-correlato e le sue conseguenzeIn relazione al contesto aziendale sentiamo spesso parlare di stress lavoro-correlato, che può essere descritto come la percezione individuale di un’eccessiva mole di richieste (emotivo-relazionali o da elevata attività) da parte dell’ambiente che superano le risorse necessarie per affrontarle e che, nei casi più gravi, può condurre al burn-out, una condizione di esaurimento causato da un estremo stress cronico in ambito lavorativo.Lo stress è un costrutto che non presenta solamente conseguenze sul piano psicologico, ma anche su quello fisico. Dal punto di vista psicofisiologico lo stress influenza il sistema nervoso da cui partono numerosi segnali di natura ormonale. Questi segnali influenzano diversi sistemi del nostro corpo: accelerano il battito cardiaco, aumentano la frequenza respiratoria e producono adrenalina e cortisolo che agiscono sul sistema immunitario, indebolendolo. Quando lo stress è acuto tale risposta fisiologica è utile e necessaria ad affrontare la situazione stressante in modo ottimale, ma quando cronicizza si hanno ripercussioni non soltanto sulle performance lavorative, ma anche sul benessere psico-fisico. Il sistema nervoso ne risente e si presentano difficoltà attentive e di memoria a causa dell’effetto del cortisolo sull’ippocampo (McEwen, 2004) e ad alterazioni nelle funzioni esecutive, il sistema cardiovascolare iperstimolato conduce a problematiche cardiache, viene inibita la produzione di globuli bianchi da parte del sistema immunitario e si possono presentare ulteriori sintomi come quelli gastrointestinali, dermatologici o del tono muscolare con conseguenti algie (Wolkowitz et al., 2011). Parallelamente, i sintomi di natura psicologica includono percezioni negative di sé, del lavoro e della vita, abbassamento dell’autostima, senso di inadeguatezza, costanti stati emotivi negativi come rabbia e ansia, alterazioni comportamentali che conducono all’adozione di stili di vita poco sani fino ad arrivare a depressione, abuso di sostanze, eccessiva reattività agli stimoli e sintomi dissociativi.Oltre ad intaccare la sfera personale, uno stress eccessivo influisce anche sulle performance e sull’approccio al lavoro, manifestandosi attraverso un maggiore assenteismo, un aumento del turnover e dei licenziamenti, più errori tecnici e incidenti e un calo della qualità del servizio e del risultato oltre che della propria soddisfazione lavorativa. Tutto ciò, oltre a rafforzare la propria condizione negativa, si ripercuote anche sull’azienda in termini di costi e di organizzazione. È stato infatti osservato che circa il 55% delle giornate di lavoro perse avviene a causa dello stress e che esso rappresenta uno dei principali problemi di salute legati al lavoro, con un costo stimato dall’Unione Europea di circa 136 miliardi di euro (European Agency for Safety and Health at Work, 2009).Date queste premesse, possiamo immaginare quanto sia importante e fondamentale incrementare il benessere del dipendente attraverso la riduzione dello stress e la promozione di capacità interpersonali e di autoregolazione psicofisiologica.Interventi per la promozione del benessere in ambito organizzativoLavorare affinché i dipendenti o i manager delle organizzazioni si trovino in armonia con loro stessi, le proprie emozioni, i propri vissuti e il proprio ambiente lavorativo è il filo conduttore tra il benessere personale e il risultato richiesto dall’azienda. In generale, gli interventi che si possono applicare possono essere svolti sul gruppo (ad esempio un gruppo di persone che lavorano in team o nello stesso ufficio) o sul singolo individuo (Quick, Quick & Nelson, 1998).Gli interventi sul gruppo includono tecniche volte al supporto reciproco, allo sviluppo attivo dell’organizzazione o una combinazione di entrambi: si possono svolgere seminari informativi, eventi di formazione e di sensibilizzazione o condurre gruppi di lavoro mediante una metodologia nota come circle-time dove si apprende a rispettare il pensiero altrui e ad empatizzare con il prossimo, anche attraverso tecniche di alfabetizzazione emotiva, al fine di promuovere un ambiente di lavoro più sereno. Gli interventi sull’individuo sono mirati a promuovere il benessere del singolo attraverso tecniche di rilassamento, approcci somatici, training di neuromodulazione, meditazione, psicoeducazione, esercizi cognitivi, supporto psicologico o psicoterapia, per far sì che si riesca a gestire al meglio lo stress lavorativo nel momento in cui si presenta ottenendo una risposta più adattiva (Le Fevre, Kolt & Matheny, 2006) oppure riuscire a prevenirlo quanto più possibile.Il ruolo delle neurotecnologie in aziendaTra gli interventi sopracitati, si rivelano di particolare utilità le tecniche di neuromodulazione. Una di queste è il neurofeedback, che agisce a livello neurofisiologico promuovendo le capacità di autoregolazione e le performance cognitive. Nello specifico, il neurofeedback si basa sul condizionamento operante: attraverso degli elettrodi viene registrata l’attività cerebrale, la quale viene elaborata da un software e rimandata al soggetto attraverso un feedback che può essere visivo, come un videogame, o uditivo, come un brano musicale. Attraverso il feedback il soggetto riesce a regolare l’attività cerebrale per allenarla e ripristinare il proprio funzionamento ottimale, in quanto ogni protocollo viene costruito ad-hoc sulla singola persona, sulle sue necessità e sulla sua fisiologia.Il neurofeedback è in grado di raccogliere le misure psicofisiologiche in tempo reale, tra cui gli indicatori dello stress, e segnalarlo al soggetto affinché possa agire per autoregolare la propria risposta, migliorando il rilassamento e la concentrazione (Patel, Asch & Volpp, 2015). Inoltre, può essere facilmente integrato con altre metodologie come la mindfulness o la psicoterapia.Man mano che si procede con le sedute, il cervello impara ad autoregolarsi e i risultati si riflettono sulla vita di tutti i giorni: questo è possibile grazie ad un meccanismo neurobiologico noto come neuroplasticità, ossia la capacità naturale del cervello di modificarsi in risposta all’esperienza.In tal modo, i benefici ottenuti dal lavoratore in termini di benessere personale si riflettono sulla vita lavorativa e su tutta l’organizzazione invertendo il trend precedentemente accennato: minor assenteismo, minor percentuale di incidenti ed errori, maggior propensione a collaborare, maggiore consapevolezza dei propri stati interni, meno comportamenti a rischio, maggiore lucidità nel decision-making, minori costi aziendali per la gestione delle conseguenze dello stress e così via.In conclusione, l’introduzione di interventi così sofisticati, supportati scientificamente e che si avvalgono delle nuove tecnologie, volti alla promozione del benessere individuale e della gestione dello stress in azienda, può permettere un maggior contenimento degli effetti di tali variabili sul lavoro e sull’organizzazione impattando sul welfare, sulla produttività e, soprattutto, sulla sfera personale ed interpersonale delle persone che vi lavorano e sulla loro salute psico-fisica, garantendo un ambiente più sereno e lavoratori più felici.BibliografiaEuropean Agency for Safety and Health at Work. (2009). European risk observatory report, OSH in figures: stress at work – facts and figures.Le Fevre, M., Kolt, G.S., & Matheny, J. (2006). Eustress, distress and their interpretation in primary and secondary occupational stress management interventions. Which way first? Journal of Managerial Psychology, 21. 547-565.McEwen, B.S. (2004). Protection and damage from acute and chronic stress: allostatis and allostatic overload and relevance to the pathophysiology of psychiatric disorders. Annals of the New York Academy of Sciences, 1032. 1-7.Patel, M.S., Asch, D.A., & Volpp, K.G. (2015). Wearable devices as facilitators, not drivers, of health behavior change. JAMA – Journal of the American Medical Association, 313(5). 459-460.Quick, J.D., Quick, J.C., & Nelson, D.L. (1998). The theory of preventive stress management of organizations. In C.L. Cooper (Ed.). Theories of Organizational Stress (pp. 246-268). Oxford University Press.Wolkowitz, O.M., Reus, V.I., & Mellon, S.H. (2011). Of sound mind and body: depression, disease and accelerated aging. Dialogues in Clinical Neuroscience, 13. 25.Autore•  Dott.ssa Ambra SalvatiPsicologa esperta in Neuropsicologia. Precedentemente collaboratore di ricerca presso University of Oxford. Neurosystem team
della Dott.sa Ambra Salvati
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Awake surgery: un neuropsicologo in sala operatoria?

Che cos’è l’awake surgeryL’awake surgery è un intervento di neurochirurgia, effettuato con anestesia locale, che prevede che il paziente resti vigile e collaborativo per tutto il corso dell’operazione. Negli ultimi anni sono emersi sempre più dati a favore di questa procedura, indicat soprattutto per la resezione di gliomi di basso e medio grado.La presenza di un neuropsicologo, che mediante l’utilizzo di test neuropsicologici può fornire un feedback continuo e in tempo reale al chirurgo, è imprescindibile per monitorare le funzioni del paziente. L’obiettivo è consentire una resezione maggiore del tumore e un minor rischio di deficit post-operatori.La necessità della valutazione neuropsicologicaIl lavoro del neuropsicologo comincia con una valutazione preoperatoria del paziente alcuni giorni prima, prosegue con il monitoraggio intraoperatorio e termina con valutazioni post-operatorie effettuate a distanza di qualche giorno e poi di qualche mese.I metodi che vengono utilizzati sono gli stessi che un neuropsicologo utilizza in altri contesti, sebbene alcune caratteristiche del paziente e del contesto richiedano un adattamento degli strumenti e delle metodologie.Ad oggi, infatti, non esistono valutazioni qualitative e quantitative tipiche ed esclusive di questo approccio, per quanto siano stati effettuati una serie di studi in merito e numerosi studiosi si stiano muovendo in questa direzione.La valutazione preoperatoria è necessaria per ottenere un profilo cognitivo del paziente (evidenziando le eventuali alterazioni delle funzioni): esso fungerà da vademecum, guiderà la scelta delle funzioni da monitorare e permetterà il confronto con la valutazione ottenuta a seguito dell’operazione chirurgica.Non c’è una risposta univoca in merito alle funzioni da monitorare, ciò dipende dalla lesione e dal grado di accettabilità di un deficit per la società, per il chirurgo e per il paziente (per esempio, la SMA e la corteccia pre-motoria sono coinvolte nell’utilizzo di complesse abilità motorie richieste per le prestazioni musicali: un danno in quelle zone potrebbe essere inaccettabile per un musicista professionista, ma accettabile per un altro paziente).Nella valutazione intraoperatoria, vengono ripetuti i test eseguiti in sede preoperatoria: le risposte del paziente e del neuropsicologo guideranno “la mano” del neurochirurgo determinando i limiti della resezione del glioma. Alcuni dei compiti maggiormente utilizzati sono il test delle piramidi e delle palme per il linguaggio e il test di bisezione di linee per la cognizione spaziale, ma sono abitualmente usati anche compiti di ripetizione, lettura e scrittura.Una valutazione post-operatoria è necessaria per osservare l’impatto globale dell’operazione e per procedere in modo ottimale con la riabilitazione.Sensory-motor profile awake scale (SMP-a)Becker e colleghi, nel 2016, hanno elaborato un nuovo strumento standardizzato per la valutazione pre, intra e postoperatoria: la SMP-a. Questa scala, pur valutando solamente le funzioni sensoriali e motorie, può essere ampliata e adattata alle necessità del paziente. Dott.ssa Francesca BasilicataDottoressa in scienze e tecniche psicologicheStudentessa di neuroscienze cognitive e riabilitazione psicologicafrancesca.basilicata@yahoo.it
della Dott.sa Francesca Basilicata
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ADHD e Teoria della Mente: la relazione tra difficoltà di attenzione e abilità sociali

L’ADHDIl Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività̀ (ADHD) è un disturbo del neurosviluppo che si manifesta con sintomi di disattenzione e/o iperattività e impulsività, associati ad importanti difficoltà scolastiche e sociali (APA, 2013). I bambini con ADHD appaiono spesso distratti, “con la testa tra le nuvole” e disorganizzati, fanno fatica a stare fermi e seduti in classe e sono spesso invadenti e incapaci di rispettare il proprio turno nelle interazioni sociali (APA, 2013).L’ADHD dipende dall’interazione di cause genetiche ed ambientali (Nigg et al., 2020). Secondo Barkley (2000) la ridotta capacità di controllare i comportamenti impulsivi, chiamata “controllo inibitorio”, rientra tra i principali elementi alla base del disturbo.La Teoria della MenteIl termine Teoria della Mente (ToM) fa riferimento alla capacità di riconoscere le intenzioni, i pensieri e i sentimenti degli altri distinguendoli dai propri (Hughes & Leekam, 2004; Szumski et al., 2019).La ToM è alla base delle interazioni sociali e sembra associata al sistema dei neuroni specchio, collocato nella corteccia motoria e implicato nell’apprendimento per imitazione e nella comprensione delle intenzioni altrui (Rizzolatti, 2005).Un’abilità centrale per la ToM è il controllo inibitorio: per “metterci nei panni degli altri” dobbiamo sopprimere temporaneamente i nostri pensieri automatici per dare maggiore importanza ai pensieri, alle credenze e ai sentimenti dell’altro (Pineda-Aluchema et al., 2018).La Teoria della Mente nell’ADHDA causa della loro difficoltà nell’inibire i comportamenti automatici, i bambini con ADHD non riescono a prestare la giusta attenzione a stimoli come l’espressione facciale o l’intonazione della voce. Questi elementi contengono informazioni utili per interpretare correttamente le situazioni sociali e mettere in atto un comportamento coerente con il contesto (Mary et al., 2016).Inoltre, è possibile che si instauri un circolo vizioso per il quale questi bambini, impulsivi e incapaci di rispettare il proprio turno nelle interazioni, vengano esclusi dal gruppo dei compagni, perdendo preziose opportunità di socializzazione e rinforzando i comportamenti inefficaci e la risposta di ritiro sociale (Mikami & Normand, 2015). Il trattamento dell’ADHDIl trattamento combinato, farmacologico e cognitivo-comportamentale, rappresenta una delle strategie più efficaci e frequentemente utilizzate per la gestione dell’ADHD. I farmaci sono utili per ridurre i sintomi di disattenzione, iperattività e impulsività, mentre la terapia cognitivo- comportamentale si basa sul rinforzo positivo di comportamenti appropriati, anche attraverso l’insegnamento di queste tecniche a genitori e insegnanti (Feldman & Reiff, 2014).Tuttavia, una volta interrotto il trattamento, con il passare del tempo si potrebbe osservare una ricomparsa dei sintomi. Inoltre, la terapia farmacologica può presentare alcuni effetti collaterali, tra cui la riduzione del sonno e dell’appetito (Santosh & Traylor, 2000). Il Neurofeedback e il trattamento dell’ADHDIl Neurofeedback può rappresentare uno dei trattamenti sicuri ed efficaci nel lungo termine. Questo tipo di intervento si basa sul rendere il paziente consapevole della propria attività cerebrale. Questa viene registrata tramite Elettroencefalogramma (EEG) e restituita al paziente sotto forma di feedback visivi o uditivi, in modo che possa imparare ad auto-regolarla (Russell-Chapin et al., 2013). Uno dei protocolli utilizzati nel trattamento dell’ADHD consente di:ridurre l’attività corticale delle onde theta (4-8 Hz) per aumentare lo stato di allerta;potenziare l’attività̀ delle onde beta (15-21 Hz) per migliorare l’attenzione (Janssen et al., 2017; Enriquez-Geppert et al., 2019).L’iperattività viene invece trattata rinforzando il ritmo sensorimotor (SMR) (Cueli et al., 2019), associato all’attività delle onde beta e delle onde mu (7-11 Hz) (Jeunet et al., 2019). Le onde beta sono implicate nell’attenzione (Janssen et al., 2017; Enriquez-Geppert et al., 2019), mentre le onde mu sembrano legate all’attivazione del sistema dei neuroni specchio. Alcune ricerche hanno dimostrato infatti che una maggiore soppressione dell’attività mu ottenuta grazie al Neurofeedback è associata ad una migliore capacità di riconoscere le emozioni e di interagire socialmente. (Oberman et al., 2015).Questi risultati appaiono promettenti: il training potrebbe infatti avere effetti positivi anche sulle abilità sociali dei bambini con ADHD, aumentando le possibilità di sperimentare interazioni sociali più efficaci e riducendo l’isolamento ed il ritiro. BibliografiaBarkley, R. A. (2000). Genetics of childhood disorders: XVII. ADHD, Part 1: The executive functions and ADHD. Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry, 39(8), 1064- 1068.Cueli, M., Rodríguez, C., Cabaleiro, P., García, T., & González-Castro, P. (2019). Differential efficacy of neurofeedback in children with ADHD presentations. Journal of clinical medicine, 8(2), 204.Enriquez-Geppert, S., Smit, D., Pimenta, M. G., & Arns, M. (2019). Neurofeedback as a treatment intervention in ADHD: Current evidence and practice. Current psychiatry reports, 21(6), 1-7.Feldman, H. M., & Reiff, M. I. (2014). Attention deficit–hyperactivity disorder in children and adolescents. New England Journal of Medicine, 370(9), 838-846.Hughes, C., & Leekam, S. (2004). What are the links between theory of mind and social relations? Review, reflections and new directions for studies of typical and atypical development. Social development, 13(4), 590-619.Janssen, T. W., Bink, M., Weeda, W. D., Geladé, K., van Mourik, R., Maras, A., & Oosterlaan, J. (2017). Learning curves of theta/beta neurofeedback in children with ADHD. European child & adolescent psychiatry, 26(5), 573-582. Jeunet, C., Glize, B., McGonigal, A., Batail, J. M., & Micoulaud-Franchi, J. A. (2019). Using EEG-based brain computer interface and neurofeedback targeting sensorimotor rhythms to improve motor skills: Theoretical background, applications and prospects. Neurophysiologie Clinique, 49(2), 125- 136.Mary, A., Slama, H., Mousty, P., Massat, I., Capiau, T., Drabs, V., & Peigneux, P. (2016). Executive and attentional contributions to Theory of Mind deficit in attention deficit/hyperactivity disorder (ADHD). Child Neuropsychology, 22(3), 345-365.Mikami, A. Y., & Normand, S. (2015). The importance of social contextual factors in peer relationships of children with ADHD. Current developmental disorders reports, 2(1), 30-37.Nigg, J. T., Sibley, M. H., Thapar, A., & Karalunas, S. L. (2020). Development of ADHD: Etiology, heterogeneity, and early life course. Annual review of developmental psychology, 2(1), 559. ISO 690Oberman, L. M., Pineda, J. A., & Ramachandran, V. S. (2007). The human mirror neuron system: a link between action observation and social skills. Social cognitive and affective neuroscience, 2(1), 62-66.Pineda-Alhucema, W., Aristizabal, E., Escudero-Cabarcas, J., Acosta-Lopez, J. E., & Vélez, J. I. (2018). Executive function and theory of mind in children with ADHD: A systematic review. Review, 28 (3), 341-358. NeuropsychologyRizzolatti, G. (2005). The mirror neuron system and its function in humans. Anatomy and embryology, 210(5), 419-421. Russell-Chapin, L., Kemmerly, T., Liu, W. C., Zagardo, M. T., Chapin, T., Dailey, D., & Dinh, D. (2013). The effects of neurofeedback in the default mode network: Pilot study results of medicated children with ADHD. Journal of Neurotherapy, 17(1), 35-42.Santosh, P. J., & Taylor, E. (2000). Stimulant drugs. European child & adolescent psychiatry, 9(1), S27. 
della Dott.sa Chiara Saba
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L’impulsività: efficacia del Neurofeedback

Che cosa è l’impulsività? Solitamente il termine impulsività viene utilizzato per indicare una predisposizione ad agire rapidamente senza che il soggetto rifletta sufficientemente sulle conseguenze e sull’appropriatezza dei comportamenti (Moeller, Barratt, Dougherty, & Swann, 2001). Infatti, questi comportamenti sono messi in atto in modo rapido, imprudente o non adeguato alla situazione, provocando spesso risultati indesiderati (Daruna & Barnes, 1993). Sono stati identificati da Barratt e Patton (1983) tre componenti dell’impulsività: • Impulsività motoria: agire senza riflettere; • Impulsività attentiva: tendenza nel prendere decisioni improvvise; • Impulsività non pianificata: carenza di pensieri sul futuro, si preferisce un beneficio immediato rispetto ad una ricompensa superiore ma posticipata (reward-delay) (Zuckerman, 1983). Lo spettro compulsivo-impulsivo Hollander e colleghi (1995) hanno ipotizzato l’esistenza dello spettro compulsivo-impulsivo che racchiude una serie di condizioni psicopatologiche simili, sebbene al giorno d’oggi questi due costrutti vengano presentati separatamente come si può notare nell’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (American Psychiatric Association, 2014). Il continuum è costituito da diverse tipologie di patologie, il polo compulsivo è quello caratterizzato da una tendenza ad evitare il danno e il rischio, mentre il polo impulsivo comprende le patologie caratterizzate da un’insufficiente capacità di controllo e disinibizione comportamentale. Il polo compulsivo è costituito da disturbi come: • Il dismorfismo corporeo; • L’ipocondria; • L’anoressia nervosa; • Il disturbo ossessivo compulsivo; • Il disturbo di Tourette; mentre • La tricotillomania; • La piromania; • Le parafilie; il polo impulsivo è caratterizzato da patologie come: • La cleptomania.Le dipendenze sono caratterizzate da aspetti sia dell’impulsività che della compulsività come la disinibizione motoria e la ridotta capacità ad inibire risposte comportamentali (Robbins et al., 2011). Uno studio condotto da Grant e colleghi (2010) ha rilevato che il disturbo da gioco d’azzardo, presenta caratteristiche tipiche della dipendenza, dei disturbi compulsivi e dei disturbi impulsivi. L’uso del neurofeedback nei disturbi dello spettro compulsivo-impulsivo Il neurofeedback è una tecnica di neuromodulazione che permette di intervenire e regolare la propria attivazione cerebrale attraverso l’uso dell’elettroencefalogramma (EEG) e di un feedback fornito in tempo reale (Hammond, 2006). In un recente studio condotto da Valenti et al. (2018) è stata valutata l’efficacia terapeutica dell’associazione tra il neurofeedback e la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) nei pazienti con disturbi dello spettro compulsivo-impulsivo. Dai risulti emerge che l’integrazione tra i due trattamenti terapeutici: • Permette di incrementare la capacità di mentalizzazione nei pazienti; • Permette di ridurre la sintomatologia impulsiva e la disregolazione emotiva; • Permette di ridurre l’impulsività non pianificata; • Non permette di modificare l’impulsività motoria e attentiva. Nei pazienti con dipendenza da sostanze si riscontra una relazione tra l’alpha/theta training e la riduzione del craving (Dehghani-Arani, Rostami, & Nadali, 2013). In particolare, in uno studio condotto su 20 individui dipendenti da oppiacei, è stato osservato che i pazienti sottoposti a 30 sedute di neurofeedback presentavano una diminuzione dell’impulsività rivolta alla ricerca della sostanza ed una riduzione del craving (Dehghani-Arani et al., 2013). BIBLIOGRAFIAAmerican Psychiatric Association (2013). DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione. Tr. it. Milano: Raffaello Cortina, (2014) Dalley, J.W., Everitt, B.J., & Robbins, T.W. (2011). Impulsivity, compulsivity, and topdown cognitive control. Neuron, 69, 680–694. Grant, J.E., & Chamberlain, S.R. (2010). Impulsive action and impulsive choice across substance and behavioral addictions: Cause or consequence? Addictive Behaviors, 39(11), 1632–1639. Hammond, D.C. (2006). What is Neurofeedback? Journal of Neurotherapy, 10(4), 25-36. Dehghani-Arani, F., Rostami, R., & Nadali, H. (2013). Neurofeedback training for opiate addiction: improvement of mental health and craving. Applied Psychophysiology and Biofeedback, 38(2), 133- 141. Hollander, E., & Wong C.M. (1995). Obsessive-compulsive spectrum disorders. Journal of Clinical Psychiatry, 56, 3–6. Hollander, E., et al. (1996). Is there a distinct OCD spettrum?. CNS Spectrums, 1, 17-26.McCown, W.G., Johnson, J.L., & Shure, M.B. (1993). The impulsive client: theory, research and treatment. Washington: American Psychological Association.Moeller, F.G., Barratt, E.S., Dougherty, D.M., & Swann, A.C. (2001). Psychiatric aspects of impulsivity. Am J Psychiatry, 158, 1783-1793. Valenti, E.M., Zarfati, A., Nicoli, M.S., Onofri, M., Imperatori, C., Farina, B., La Rosa, C., Gattinara, P.C, & Onofri, A. (2018). Utilità̀ del neurofeedback in associazione alla terapia cognitivo- comportamentale nel trattamento dello spettro impulsivo-compulsivo: dati preliminari di uno studio sperimentale naturalistico. ResearchGate. Zuckerman, M. (1983). Biological bases of sensation seeking, impulsivity, and anxiety. Hillsdale: Lawrence Erlbaum Associates, 77-122.  
della Dott.sa Stefania Paola Francesca Scarlata
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Il Neurofeedback: un possibile trattamento per il Disturbo da alimentazione incontrollata

I Disturbi del comportamento alimentare I Disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono patologie caratterizzate da un’alterazione delle abitudini alimentari e da un’eccessiva preoccupazione per il peso e la forma del corpo, che compromettono la qualità della vita e le relazioni sociali della persona che colpiscono (APA, 2013). L’ultima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5; American Psychiatric Association [APA], 2013) li raggruppa in un’unica categoria chiamata “Disturbi della nutrizione e della alimentazione”, all’interno della quale viene descritto il Disturbo da alimentazione incontrollata.   Il Disturbo da alimentazione incontrollata Il Disturbo da alimentazione incontrollata o Binge Eating Disorder (BED) è caratterizzato dal consumo di grandi quantità di cibo in poco tempo anche in assenza di appetito o fame. Con Binge eating si fa riferimento ad episodi di abbuffate, cioè assunzioni incontrollate di grandi quantitativi di cibo fino a sentirsi spiacevolmente pieni (APA, 2013), dopo i quali le persone possono avere sensazioni di perdita di controllo e angoscia. Tali episodi non sono seguiti da comportamenti compensatori quali vomito, uso di lassativi o restrizione alimentare, come invece avviene in chi soffre di bulimia nervosa (APA, 2013). I soggetti con binge eating possono presentare con maggior frequenza sovrappeso o obesità, il ché comporta diversi rischi per la salute fisica.   Il BED può essere accompagnato anche dal food craving, desiderio irresistibile verso cibi particolarmente ricchi di sale, zuccherati o grassi, difficile da controllare e che richiede una soddisfazione immediata. In genere lo stress emotivo e la tensione svolgono un ruolo importante negli episodi di abbuffata e di food craving.   Il ruolo del Neurofeedback nel trattamento del Binge eating Disorder Il Neurofeedback (NF) è una tecnica di neuromodulazione utilizzata per modificare l’attività cerebrale. Grazie al neurofeedback il paziente impara ad agire sul suo funzionamento cerebrale e diventa capace di promuovere stati mentali desiderati ed inibire quelli indesiderati (Gevensleben et al., 2014).   Le linee guida internazionali consigliano la psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) come terapia elettiva per i DCA. Tuttavia, diversi studi suggeriscono che il Neurofeedback (NF) possa essere utile nel trattamento di comportamenti alimentari disfunzionali (Imperatori et al., 2018). In particolare, è stato riscontrato che il NF possa ridurre l’eccessivo desiderio di cibo e gli episodi di abbuffate, comportamenti tipici di chi soffre di BED.  Ulteriori risultati suggeriscono che il NF possa aumentare la consapevolezza di sé e la capacità di tollerare l’ansia associata a food craving (Imperatori et al., 2017). Il NF può essere un trattamento promettente per le persone con BED, poiché permette di ridurre la sintomatologia associata al disturbo e di ottenere risultati efficaci e stabili nel tempo (Blume et al., 2022).  Il BED è un disturbo mentale complesso che coinvolge processi cognitivi ed emotivi, per il quale si consiglia l’uso del Neurofeedback in associazione alla psicoterapia cognitivo-comportamentale (Schmidt et al., 2015).   In conclusione, le capacità di autocontrollo e di regolazione cerebrale ottenute grazie al NF possono ridurre i comportamenti alimentari disfunzionali associati al binge eating disorder.   Bibliografia American Psychiatric Association (APA) (2013). Diagnostic and Statistical Manual of mental Disorders: DSM-5. Washington, DC: American Psychiatric Association.   Bartholdy, S., Musiat, P., Campbell, I. C., & Schmidt, U. (2013). The potential of neurofeedback in the treatment of eating disorders: A review of the literature. European Eating Disorders Review, 21(6), 456-463.   Blume, M., Schmidt, R., Schmidt, J., Martin, A., & Hilbert, A. (2022). EEG neurofeedback in the treatment of adults with binge-eating disorder: a randomized controlled pilot study. Neurotherapeutics, 19(1), 352-365.   Gevensleben, H., Kleemeyer, M., Rothenberger, L. G., Studer, P., Flaig-Röhr, A., Moll, G. H., ... & Heinrich, H. (2014). Neurofeedback in ADHD: further pieces of the puzzle. Brain topography, 27(1), 20-32.   Hammond, D. C. (2006). What is neurofeedback?. Journal of neurotherapy, 10(4), 25-36.   Imperatori, C., Valenti, E. M., Della Marca, G., Amoroso, N., Massullo, C., Carbone, G. A., ... & Farina, B. (2017). Coping food craving with neurofeedback. Evaluation of the usefulness of alpha/theta training in a non-clinical sample. International Journal of Psychophysiology, 112, 89-97. Imperatori, C., Mancini, M., Della Marca, G., Valenti, E. M., & Farina, B. (2018). Feedback-based treatments for eating disorders and related symptoms: a systematic review of the literature. Nutrients, 10(11), 1806.   Innamorati, M., Imperatori, C., Harnic, D., Erbuto, D., Patitucci, E., Janiri, L., ... & Fabbricatore, M. (2017). Emotion regulation and mentalization in people at risk for food addiction. Behavioral Medicine, 43(1), 21-30.   Lansbergen, M. M., van Dongen-Boomsma, M., Buitelaar, J. K., & Slaats-Willemse, D. (2011). ADHD and EEG-neurofeedback: a double-blind randomized placebo-controlled feasibility study. Journal of neural transmission, 118(2), 275-284.   Schmidt, J., & Martin, A. (2015). Neurofeedback reduces overeating episodes in female restrained eaters: a randomized controlled pilot-study. Applied psychophysiology and biofeedback, 40(4), 283-295.   Valenti, E. M., Zarfati, A., Nicoli, M. S., Onofri, M., Imperatori, C., Farina, B., ... & Onofri, A. Bias attentivo verso gli stimoli inerenti la colpa nel disturbo ossessivo-compulsivo: un’indagine preliminare.
della Dott.ssa Giulia Badalamenti 
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Disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) e neurofeedback

Cosa sono i DSA? Il termine Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) si riferisce ad un insieme di disturbi che si caratterizzano per significative difficoltà nell’acquisizione e nell’uso di abilità di espressione, lettura, scrittura, ragionamento e matematica. Queste problematiche si manifestano in modo specifico nell’apprendimento scolastico attraverso un mancato raggiungimento degli obiettivi attesi rispetto alle potenzialità e all’età del bambino (Cornoldi, C. 2007). I DSA fanno riferimento a specifiche difficoltà: • Dislessia: difficoltà nella lettura • Disortografia: difficoltà di scrittura nella correttezza ortografica • Disgrafia: difficoltà nella grafia • Discalculia: difficoltà nel calcoloQueste difficoltà vengono diagnosticate attraverso precisi strumenti standardizzati che permettono di identificare sia la presenza del disturbo, sia il grado di difficoltà del bambino. Durante il percorso diagnostico vengono somministrati test volti ad escludere che vi sia una disabilità intellettiva, infatti, i bambini con DSA sono bambini con intelligenza nella norma, che tuttavia manifestano difficoltà specifiche nell’apprendimento (Cornoldi, C. 1999). L’interventoUn buon intervento di potenziamento e l’allenamento cognitivo sono fondamentali per sostenere il bambino nel suo percorso scolastico, promuovendo l’autonomia e favorendo le opportunità di apprendimento, nonostante le difficoltà che il bambino potrà incontrare nel suo percorso. L’obiettivo infatti è quello di aumentare l’autostima e il senso di autoefficacia, favorendo le possibilità di successo scolastico (Biancardi, A. 1999).Il neurofeedbackIl neurofeedback (NF) è un metodo di intervento che utilizza l’elettroencefalogramma (EEG) per promuovere un maggior controllo dei propri stati interni, monitorando le onde cerebrali grazie all’applicazione di alcuni sensori sulla cute. È una tecnica adatta a tutti data la facilità di utilizzo e l’assenza effetti collaterali. Con il NF è possibile allenare il nostro cervello mentre si svolgono attività piacevoli come, ad esempio, giocare ai videogame (Fernández, T. et al.  2007). Essendo il neurofeedback un vero e proprio allenamento per la mente, necessita di impegno e costanza per permettere al cervello di rendere automatico lo stato delle onde cerebrali che viene allenato durante le sedute di training (Gray, S. et al. 2012). Il neurofeedback come intervento per i DSAI bambini con disturbi dell’apprendimento evidenziano onde EEG lente, incluse un aumento delle onde theta e una riduzione dell’onde alfa; questo influisce sul loro apprendimento, in particolare in quello di lettura e scrittura. Pertanto, il NF potrebbe permettere di aiutare a controllare e ridurre il rapporto theta/alfa divenendo un efficace supporto in grado di promuovere miglioramenti nell’apprendimento, oltre che nell’attenzione e nella memoria di lavoro, due componenti fondamentali implicate nelle abilità di letto-scrittura e calcolo (Fernández, T. et al.  2015).BibliografiaBiancardi A. (1991), “Disturbi di apprendimento nell’età scolare e successivi esiti sociali”, in Bambino incompiuto, n. 3, pp. 91-102Cornoldi, C. (a cura di) (2007), Difficoltà e Disturbi dell’Apprendimento, Il Mulino, BolognaCornoldi, C. (1999), Le difficoltà di apprendimento a scuola, Il Mulino, BolognaFernández, T.; Harmony, T.; Fernández-Bouzas, A.; Díaz-Comas, L.; Prado-Alcalá, R.A.; Valdés-Sosa, P.; Otero, G.; Bosch, J.; Galán, L.; Santiago-Rodriguez, E.; et al. Changes in EEG Current Sources Induced by Neurofeedback in Learning Disabled Children. An Exploratory Study. Appl. Psychophysiol. Biofeedback 2007, 32, 169–183.Fernández, T.; Bosch-Bayard, J.; Harmony, T.; Caballero, M.I.; Díaz-Comas, L.; Galán, L.; Ricardo-Garcell, J.; Aubert, E.; Otero- Ojeda, G. Neurofeedback in Learning Disabled Children: Visual versus Auditory Reinforcement. Appl. Psychophysiol. Biofeedback 2015, 41, 27–37Gray, S. A., Chaban, P., Martinussen, R., Goldberg, R., Gotlieb, H., Kronitz, R., et al. (2012). Effects of a computerized working memory training program on working memory, attention, and academics in adolescents with severe LD and comorbid ADHD: A randomized controlled trial. Journal of Child Psychology and Psychiatry, 53(12), 1277–1284.
della Dott.ssa Elisa Galante 
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La Mappatura Cerebrale: l'Elettroencefalografia Quantitativa o QEEG

Il numero totale di connessioni neurali nel cervello è di circa 12 miliardi, paragonabile al numero di stelle della nostra galassia: si tratta, in effetti, della cosa più complessa dell'universo conosciuto.Questa complessità, tuttavia, può essere catturata e quantificata tramite l'elettroencefalografia quantitativa, o QEEG: un metodo che misura l’attività elettrica del cervello, confronta le misure rilevate con valori normativi e ne restituisce una mappa visiva.L'applicazione clinica del QEEG è ampia e comprende disturbi neuropsichiatrici, epilessia, ictus, demenza, lesioni cerebrali traumatiche, disturbi mentali e molti altri. In questo articolo, spiegheremo come funziona il QEEG e perché può essere uno strumento utile da applicare e integrare nella pratica clinica.Come funziona la mappatura cerebrale QEEG?La mappatura qEEG inizia con un elettroencefalogramma (EEG), che misura l'attività delle onde cerebrali attraverso sensori posizionati sulla testa del paziente. La lettura delle onde cerebrali viene poi inviata al software QEEG che, attraverso complessi algoritmi matematici, interpreta e trasforma i dati.A questo punto, i valori del paziente vengono confrontati con i valori normativi, calcolati da un database QEEG acquisito da migliaia di altri cervelli. I valori normativi (Z-Score) sono ottenuti sulla base del segnale EEG, della posizione dei sensori, dell'età, del sesso e in base al fatto che gli occhi siano aperti o chiusi. Attraverso queste informazioni, lo Z-Score può fornire valori di 0,0 (normale), positivi (superiori alla norma) e negativi (inferiori alla norma).Si otterrà quindi un referto QEEG che potrebbe indicare, ad esempio, che alcune regioni del sistema nervoso mostrano un'attività anomala delle onde cerebrali rispetto alla norma (rispetto, cioè, ad altri pazienti di età corrispondente).Il software, infine, sintetizza i dati in una mappa a colori che illustra la diversa potenza delle varie bande di frequenza nelle diverse parti del cervello. Questa rappresentazione può fornire indicazioni su come il funzionamento cerebrale del cliente differisce dalla popolazione campione.All’interno di questa mappa, inoltre, il colore rosso rappresenta un'ampiezza maggiore rispetto al database, mentre il colore blu rappresenta un'ampiezza minore.Come utilizzare i dati ricavati nella pratica clinica?1. Comprendere la causa dei sintomi del vostro pazienteTramite il QEEG è possibile offrire al paziente informazioni dettagliate e preziose sulla struttura fisica del suo cervello. Ogni lobo del cervello, infatti, per funzionare in maniera ottimale, deve mantenere livelli specifici di attività delle onde cerebrali. Dopo aver eseguito un QEEG ad occhi chiusi, ad esempio, potreste notare che in zona il paziente ha un basso livello di alfa frontale ma un alto livello di delta frontale, spiegando così il motivo della presenza di sintomi di iperattività o impulsività.2. Creare un piano terapeutico ad hocIndipendentemente dai sintomi che il paziente sperimenta o manifesta, uno dei vantaggi principali derivanti dall’uso del QEEG è quello di poter creare un piano terapeutico più specifico grazie a una comprensione più approfondita del funzionamento del cervello, di eventuali anomalie e delle comunicazioni tra i network cerebrali. I risultati ottenuti, ad esempio, potrebbero guidarvi nel creare un protocollo di Neurofeedback mirato all’allenamento delle aree cerebrali alterate che correlano con i loro sintomi: si cercherà di ridurre i valori anormalmente elevati o di aumentare quelli ridotti.Un’altra possibilità è quella di utilizzare la mappatura QEEG all’interno del processo di assessment, a supporto del lavoro clinico. Un paziente, ad esempio, potrebbe riferire come problema principale quello di avere problemi di irritabilità, ma la sua mappa cerebrale QEEG potrebbe anche mostrare la presenza di anomalie riconducibili a tratti depressivi. In questo modo, avremo un’ulteriore lettura del suo stato psicologico e sarà possibile impostare un piano terapeutico ottimale.3. Misurare, monitorare e condividere i progressi dei vostri pazientiLa possibilità di comprendere e osservare visivamente se e come i cambiamenti comportamentali stiano migliorando la salute funzionale e strutturale del cervello, può essere estremamente preziosa per i pazienti. Potreste, ad esempio, effettuare una mappatura QEEG durante l’assessment iniziale e ripeterla dopo un certo periodo di tempo, così da mostrare al paziente progressi e cambiamenti: in questo modo, aumenteranno le probabilità che resti motivato nel processo terapeutico.ConclusioniSebbene esista una vasta letteratura pubblicata sul QEEG, si tratta di un metodo non ancora ampiamente utilizzato e soggetto a molti dibattiti scientifici circa il suo contributo nella pratica clinica. Le cause del dibattito sono molteplici: la mancanza di metodologia nella gestione dell'ampio database generato dalle registrazioni EEG (ogni specialista ha i suoi strumenti di analisi statistica) e la variabilità inter e intra-individuale. L'EEG, infatti, è influenzato da diversi fattori:biologici (età, spessore dei tessuti, stato di veglia; dalle tecniche (apparecchiature, elettrodi), dagli artefatti e, infine, dalla necessità di professionisti ben formati nell'interpretazione del QEEG.In conclusione, quindi, il ruolo del QEEG non è quello di fornire una diagnosi immediata, quanto piuttosto quello di essere uno strumento complementare ad altre indagini e di fornire dati oggettivi che contribuiscono ad una diagnosi più accurata. È prezioso, inoltre, per valutare la gravità della malattia e monitorare in maniera specifica la risposta al trattamento.BibliografiaCollura Thomas F. & Frederick Jon A., (2017). Handbook of Clinical QEEG and Neurotherapy.Livint Popa, L., Dragos, H., Pantelemon, C., Verisezan Rosu, O., & Strilciuc, S. (2020). The Role ofQuantitative EEG in the Diagnosis of Neuropsychiatric Disorders. Journal of Medicine andLife, 13(1), 8–15.Stöckl-Drax, T. (2014) QEEG and 19-Channel Neurofeedback as a Clinical Evaluation Tool forChildren with Attention, Learning and Emotional Problems. NeuroRegulation, 1(2), 173–182.
della Dott.sa Valeria Romani